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RIFFE, ‘NCIURIE E BANCARELLE:

IL RITORNO INDIETRO DI COSA NOSTRA

Nel controllo del territorio capillare, minuzioso, metro per metro, della famiglia Mulè forse possiamo rintracciare l’attuale stato di Cosa Nostra palermitana. Un ritorno alle origini, anzi all’essenza della criminalità organizzata siciliana: l’imposizione del pizzo.

Nessuna attività economica, piccola o grande che sia, deve sfuggire ai boss locali, neanche le bancarelle dei mercati storici di Palermo (Capo, Ballarò, Vucciria, Kalsa), neanche gli ambulanti stranieri; pure un ombrellone con sotto un tavolino in mezzo a una strada.

Tutti devono chiedere il permesso e pagare. Tutti devono “mettersi a posto”. Tutti devono versare la loro quota per stare tranquilli: “Quello delle torte, quello delle cassate, il fioraio, quello del Caf, il tunisino che vende sigarette, quello delle noccioline, quello della pizza, quello di piazza S. Domenico, quello di via Borsa, il pub, quello delle sigarette, quello dello sgombro”, i boss non hanno dubbi, la loro tassa deve essere applicata a chiunque.

Anche il metodo della riscossione del “pizzo” rimanda al passato: nei quartieri si fa la riffa”, l’antica e tradizionale lotteria di Cosa Nostra. Ogni commerciante deve obbligatoriamente acquistare un biglietto con un numero. L’estrazione dei tre numeri vincenti avviene a fine settimana. Così della somma totale incassata dal clan, una parte va come premio delle vincite, il resto, la quantità più grossa, serve sia a mantenere le famiglie dei detenuti, sia ad alimentare il traffico di droga, ma anche ad assicurare a capi e sottocapi introiti e sicurezza economica.

Massimo Mulè

Sono questi due fatti l’aspetto più importante emerso dall’ Operazione Centro che giovedì 15 dicembre ha portato in carcere 9 persone. Una retata che ha colpito la famiglia mafiosa di Palermo Centro, mandamento di Porta Nuova, dove al vertice sembrano essere ritornati Francesco Mulè e suo figlio Massimo.

Il blitz è stato accelerato dal pericolo di fuga di alcuni degli indagati, che a quanto pare avevano alcune “talpe” all’interno degli organi istituzionali che li informavano delle indagini. E la conferma indiretta che alcuni si preparavano a far per perdere le loro tracce si è avuta dalla moglie di Gaetano Badalamenti, uno degli arrestati. Per lei, gli strani preparativi per la partenza del marito nascondevano invece un tradimento sentimentale, e per questo si è rivolta ad una cartomante.

Nomi e cifre delle estorsioni venivano annotate in un’agendina custodita in un negozio di toelettatura per animali del nipote di Mulè. E come in una qualsiasi altra azienda, conti e bilanci si chiudevano a fine anno, e quindi le somme ancora da riscuotere si dovevano sollecitare. Anche perché “Questi… tutti in mezzo la strada sono! Sono terremotati”, alludendo alle chiare difficoltà economiche delle famiglie mafiose.

Naturalmente anche lo spaccio di droga è stato al centro dell’interesse del clan. In questo settore sembrano essersi distinti Gaetano Badalamenti, Alessandro Cutrona e Leandro Naso; il primo con una posizione di netta superiorità rispetto agli altri due.

Un commercio intenso e pervasivo che copriva tutti i territori di competenza, con i pusher che dovevano attenersi alle rigide regole imposte da chi gli forniva le sostanze stupefacenti. E se qualcuno osava discutere o “traccheggiare” “Devono tremare. Devi essere più fermo! Loro si devono prendere le cose da noi. Alla Kalsa ci siamo noi”, dicevano i capi agli esecutori degli ordini.

Da quest’operazione antimafia è riaffiorata anche un’altra vecchia connotazione degli appartenenti alle famiglie mafiose, quasi un elemento antropologico della loro vecchia cultura popolare: l’uso dei soprannomi, delle ‘nciurie.

Tutt’e nove gli arrestati ne hanno uno; alcuni due; Badalamenti addirittura sei. Leggiamoli: ‘U zio, Mangeskin, Roma, Ricotta, Sicarru, Sicarieddu, Pitbull, ‘U pacchiuni, ‘U pugile, Mussolini, Benzina, Pompa.

Un linguaggio e un modo di vivere tra i vicoli del centro storico che segna un ritorno alle origini.

Giovanni Burgio

27 dicembre 2022